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Vite straordinarie di persone normali che hanno scelto di vivere la vita di tutti i giorni secondo gli insegnamenti del Vangelo

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Vite straordinarie di persone normali che hanno scelto di vivere la vita di tutti i giorni secondo gli insegnamenti del Vangelo

    San Giuseppe Cottolengo, il gigante della carità

    San Giuseppe Cottolengo, il gigante della carità

    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7791

    SAN GIUSEPPE COTTOLENGO, IL GIGANTE DELLA CARITA' di Roberto de Mattei
    Martedì 30 aprile 2024 tutti i religiosi della Piccola Casa della Divina Provvidenza e delle congregazioni ad essa collegate hanno festeggiato la solennità di san Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842) a novant'anni dalla sua canonizzazione.
    Giuseppe Cottolengo fu infatti proclamato santo il 19 marzo 1934 nella Basilica di San Pietro da Papa Pio XI, che lo definì "gigante della carità" e "genio del bene".
    Giuseppe Benedetto Cottolengo nacque a Bra, cittadina della provincia di Cuneo, nel Piemonte sabaudo, il 3 maggio 1786. In quegli stessi anni l'ex-gesuita Nikolaus von Diessbach e il sacerdote Pio Brunone Lanteri fondavano a Torino la Amicizia Cristiana, che poi divenne la Amicizia Cattolica, una società segreta che si opponeva agli errori del tempo, l'illuminismo e il giansenismo, riproponendo l'autentico spirito cattolico, soprattutto la spiritualità di sant'Ignazio e la teologia morale di sant'Alfonso de'Liguori. Negli anni che vanno tra la Rivoluzione francese e la restaurazione sabauda del 1814, l'opera di disseminazione intellettuale e spirituale delle Amicizie preparò la grande rinascita del Piemonte cattolico nell'Ottocento.
    Uno dei primi frutti di questa rinascita fu Giuseppe Cottolengo, che nel 1811 abbracciò la via del sacerdozio, imitato anche da due fratelli. Fu nominato canonico e divenne un apprezzato predicatore e conferenziere. Dio però chiedeva qualcosa di più da lui e gli manifestò la sua Volontà, in modo drammatico, la domenica mattina del 2 settembre 1827. Proveniente da Milano giunse a Torino una diligenza dove si trovava una famiglia francese in cui la moglie, con cinque bambini, era in stato di gravidanza avanzata e con la febbre alta. Dopo aver vagato per vari ospedali, quella famiglia trovò alloggio in un dormitorio pubblico, ma la situazione per la donna andò aggravandosi e alcuni si misero alla ricerca di un prete. Fu chiamato Cottolengo, e fu proprio lui, ad accompagnare alla morte questa giovane madre. Rimase profondamente colpito da questo evento e pregò davanti al Santissimo Sacramento: "Mio Dio, perché? Perché mi hai voluto testimone di una morte così triste? Cosa vuoi da me?". Rialzatosi, fece suonare tutte le campane e accendere le candele, esclamando: "La grazia è fatta! La grazia è fatta!". Da quel momento il Cottolengo fu trasformato: tutte le sue capacità, specialmente la sua abilità economica e organizzativa, furono utilizzate al servizio dei più bisognosi.
    UNA SANTA GARA
    Affittò un paio di camerette nel centro di Torino e iniziò ad accogliere poveri e sofferenti, con l'aiuto di collaboratori e volontari. Tra essi una giovane vedova, Marianna Nasi, che fu alle origini delle sue suore, la cui giornata era divisa tra il servizio ai poveri e l'adorazione al Santissimo Sacramento. Fondò poi una famiglia religiosa di fratelli laici, e una comunità di sacerdoti, con la stessa missione di assistenza ai poveri e ai malati. Le dimensioni dell'iniziativa furono tali da obbligarlo ad allargarsi verso la periferia di Torino, a Valdocco. Cottolengo creò una sorta di villaggio, nel quale ad ogni edificio assegnò un nome significativo: "casa della fede", "casa della speranza", "casa della carità", coinvolgendo uomini e donne, religiosi e laici, uniti per affrontare insieme le difficoltà che si presentavano.
    Il canonico Cottolengo era di una carità eroica, ma la sua virtù più caratteristica era la fede nella Divina Provvidenza. Diceva: "Io sono un buono a nulla e non so neppure cosa mi faccio. La Divina Provvidenza però sa certamente ciò che vuole. A me tocca solo assecondarla. Avanti in Domino". Fu detto che una santa gara si avvertiva fra il totale abbandono del Cottolengo nelle mani della Divina...

    • 8 min
    Il cavaliere perfetto, eroe nazionale del Portogallo

    Il cavaliere perfetto, eroe nazionale del Portogallo

    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7792

    IL CAVALIERE PERFETTO, EROE NAZIONALE DEL PORTOGALLO
    Combattente devotissimo alla Madonna, Nuno Alvares de Pereira decise di ritirarsi in un convento carmelitano e ai funerali era già acclamato come santo
    di Rino Cammilleri
    È singolare come due nazioni tendenzialmente pacifiche come la Svizzera e il Portogallo abbiano per eroe nazionali due guerrieri. La singolarità si accresce nella Svizzera calvinista, che ha come padre della Patria non solo un combattente ma addirittura un santo cattolico, San Nicola di Flue. E pure il Portogallo ha un Santo, Nuno Alvares de Pereira, canonizzato nel 2009 da Benedetto XVI. Allo svizzero, che dopo le gesta belliche si ritirò in eremitaggio e visse per quarant'anni di sole ostie, abbiamo dedicato a suo tempo una puntata. Oggi parleremo del portoghese, che già al funerale era acclamato come: "o santo Condestàvel", "il Conestabile Santo" (Conestabile era il titolo del comandante supremo delle armate). Nato il 24 giugno 1360 a Cernache do Bomjardim, era figlio illegittimo di un cavaliere di San Giovanni (odierni di Malta), fra Álvaro Gonçalves Pereira, che era pure priore e, ovviamente nobile d'alto rango. Anche la madre, Dona Iria Concalves do Carvalhal, era una gran dama, e a quel tempo la castità non era considerata un problema da perderci il sonno (e l'aborto era escluso a priori).
    AL COMANDO DELL'ESERCITO
    Le entrature del padre a Corte ottennero un decreto reale di legittimazione, così il tredicenne Nuno poté diventare paggio della regina Leonor e ricevere un'educazione da cavaliere. Dopo l'investitura, a sedici anni il padre lo accasciò in un ottimo partito, la giovane, bella e soprattutto ricca vedova dona Leonor de Alvin. I due sposi ebbero tre figli, due maschi e una femmina. Sopravvisse solo quest'ultima, Beatriz che poi andò in moglie ad Alfonso, Duca di Braganca e figlio del re Joao I. Da questa unione partì la dinastia reale portoghese di Bracanca. Nel 1383 morì Ferdinando senza eredi maschi, per cui la corona passò al fratello Joao. Ma il defunto Fernando aveva una figlia che aveva sposato il re di Castiglia, il quale si affrettò a reclamare per sé la corona portoghese. Naturalmente fu guerra e il nostro Nuno ebbe il comando supremo dell'esercito. Erano tempi in cui il comandante in carica non stava a dirigere le operazioni al sicuro su un'altura ma si spendeva personalmente in prima fila. E Nuno non si faceva pregare. Lo si vide in diverse battaglie e, fin dal giorno in cui le navi castigliane si presentarono di sorpresa davanti a Lisbona, che non era ancora capitale ma aveva già un porto di grande importanza. Nuno riuscì a riunire di fretta solo sessanta uomini e pochi cavalieri, mentre una forza di duecentocinquanta nemici si apprestava a sbarcare.
    PRATICAVA IL DIGIUNO
    I portoghesi, intimoriti, esitavano, ma Nuno si lanciò all'attacco con pochi compagni. Un colpo di lancia gli abbatté il cavallo e lui rimase intrappolato sotto l'animale. Ma anche da quella scomoda posizione si difendeva spada in mano contro una forma di castigliani. Fu il vedere il loro comandante in grave pericolo a far decidere i portoghesi rimasti a distanza. Dimentichi degli inferiorità numerica si proiettarono nel soccorso e la giornata fu loro: I castigliani, investiti da quelle furie, si affrettarono a reimbarcarsi lasciando sul terreno parecchi uomini. La guerra continuò fino al 1385, quando nella storica Battaglia Aljubarrota il Conestabile di Portogallo sconfisse definitivamente i castigliani e salvò l'indipendenza del Regno. La vittoria, quantunque l'esercito portoghese fosse più ridotto rispetto a quello Castigliano, fu così netta che il nemico venne inseguito fin dentro alla Castiglia e schiacciato a Valverde. Il giorno di Ajubarrota era la vigilia dell'Assunta. Il giorno...

    • 9 min
    Una stigmatizzata fuori dal comune

    Una stigmatizzata fuori dal comune

    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7773

    UNA STIGMATIZZATA FUORI DAL COMUNI di Rino Cammilleri
    Ho scrutato attentamente il video che il dottor Paolo Basso da Crema mi ha recapitato sulla beata Maria Domenica Lazzeri, detta la "Meneghina", nata nel 1815 e morta nel 1848. Diciamo subito, per chi non lo sapesse, che si tratta di una stigmatizzata. Stavo per scrivere "la solita stigmatizzata", perché essendomi occupato per trent'anni, ogni giorno, prima sul quotidiano Avvenire e poi Il Giornale, di santi e beati, di stigmatizzate ne ho viste tante. Quante siano potete agevolmente contarle, se avete pazienza, sul sito santiebeati.it. Da Caterina da Siena, a Teresa Neumann, eccetera. Mai, però, avevo considerato il fatto che queste mistiche sanguinanti fossero tutte donne. Sì, abbiamo il Poverello e Padre Pio. E basta, almeno che io ricordi. Tutte le altre sono donne, sempre donne. Queste strane privilegiate dal Cielo in genere non devono far altro che starsene in un letto a patire. Qualcuna ha visioni e detta libri, come Katharina Emmerick. Qualche altra manifesta i dolori della Passione in periodi ricorrenti e limitati, come Natuzza Evolo. Qualche altra ancora, come Elena Aiello, continua a occuparsi dei suoi orfanotrofi. Ma le più devono solo fare le "vittime". Perché donne? Forse perché sono più delicate e fragili? In effetti ciò si accorderebbe con il risultato modus operandi del Cielo: scegliete il personaggio più improbabile onde mostrare che quanto gli accade viene solo esclusivamente dall'Alto. La potenza di Dio si manifesta meglio nella debolezza, come dice Paolo. E più la creatura prescelta è inadeguata, più appare, a chi voglia vederla, l'opera di Dio.

    RIMANEVA MORTA
    Naturalmente noi crediamo che la ricompensa per tali "vittime" sarà straordinaria, altrimenti prendere una ragazza minuta e insignificante, confinarla in un letto di dolore senza mangiare, né bere, né dormire, ma solo e sempre sanguinare tra le sofferenze più atroci sarebbe puro sadismo. Ma noi sappiamo che il Creatore è Bontà e Amore, perciò non ci resta che aggrapparci alla Fede. E veniamo alla Nostra. Al solito, nasce in un posto sperduto e dimenticato, Capriana in Val di Fiemme, Trento. Figlia di un povero mugnaio fin da subito conosce la fatica e i geloni alle dita in un tempo e in un luogo in cui se vuoi scaldarti devi prima far legna e accendere il camino. Ultima di cinque figli, dopo qualche anno di scuola, va a servizio, anche perché il padre è nel frattempo morto. Nel 1833, mentre si prodiga per i malati d'influenza, rimane contagiata. A quel tempo o si guarisce o si muore di polmonite. Lei, invece, sviluppa un crescendo di sintomi mai visti prima che in breve la confinano a letto, impedita a mangiare, bere e dormire. Riesce solo a "inghiottire" l'ostia, di cui nell'800 bisogna essere "degni", perciò mensile. Chiamata in paese "meneghina" ("Domeneghina"), ha diciannove anni quando comincia: sudorazione di sangue come nel Getsemani, ferite sulla fronte come da coronazione di spine, stigmate alle mani, al torace e ai piedi. Le mani sono artigliate, come si suppone siano state quelle inchiodate di Cristo, i piedi sempre sovrapposti. Ogni venerdì, all'ora della morte di Cristo, anche lei rimane morta per diverso tempo. Sì, morta. Indi si rianima e si riparte con il calvario.

    IL SANGUE OLTRE LA GRAVITÀ
    Gli scienziati che scrutano il caso sono intrigati anche dal fatto che su di lei il sangue gocciola non seguendo la gravità, ma come se davvero fosse appesa verticale a una croce. E ciò accade tutti i venerdì, per quattordici anni (per chi ama le coincidenze sempre in questi casi c'è il bicchiere mezzo pieno: la mistica è in grado di seguire omelie pronunciate in altri luoghi e di riferire cose dette altrove, di comprendere lingue straniere e pure antiche, di...

    • 8 min
    Principessa, schiava e infine suora

    Principessa, schiava e infine suora

    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7755

    PRINCIPESSA, SCHIAVA E INFINE SUORA di Rino Cammilleri
    Oggi parliamo di una suora africana, negra ed ex schiava. No, non si tratta di Giuseppina Bakhita, che è già canonizzata. Mi riferisco a Teresa Chikaba, che non era sudanese come Bakhita, ma veniva dall’Africa subsahariana, quella che ai suoi tempi veniva chiamata Africa nera. Teresa Chikaba è in attesa di beatificazione, e sarebbe anche l’ora, dati i molti miracoli testimoniati per sua intercessione. Ma andiamo con ordine. Non sappiamo se avesse altri nomi oltre a Chikaba; in base ai suoi racconti sappiamo che era nata in Guinea nel 1676 e che era una principessa. Ora, il termine principessa ci fa subito pensare alle case reali europee, col loro fasto e le trine e le parrucche incipriate. Quanto fosse esteso il "regno" di suo padre non è dato conoscere, ma è probabile che quest’ultimo non fosse altro che uno dei tanti capitribù. Chi comandava davvero da quelle parti erano i portoghesi, che avevano fatto della Guinea, insieme ai confinanti Angola e Mozambico, una loro colonia fin dal secolo precedente. Sì, perché, dopo che il rullo islamico aveva spazzato via l’Africa romana e cristiana, il continente aveva visto secoli di guerre inter-tribali per procurarsi schiavi da vendere agli arabi. Fino a quando i navigatori portoghesi nel XV secolo non inaugurarono il ritorno dei missionari al seguito dei coloni.
    FUTURA REGINA
    Dietro esploratori e poi coloni spagnoli, francesi e, via via, olandesi belgi, inglesi, tedeschi e infine italiani, la parola Vangelo era rientrata in Africa, con i suoi successi più o meno limitati e i suoi, ovviamente, martiri. Per questo è altresì probabile che la famiglia di Chikaba, i suoi genitori e i fratelli fossero venuti in contatto con i missionari cattolici, dato che questi sempre seguivano la fondazione di una colonia da parte di una potenza cattolica. Lei stessa narrò che, una volta, dovendo seguire la sua famiglia nel prescritto pellegrinaggio all’idolo che i nativi chiamavano Lucero, mentre eseguiva la prostrazione rituale sentì una sorta di vuoto dentro, un senso di insoddisfazione infinita, una delusione cocente. Perché? Qualunque cosa fosse quella sensazione inaudita e insopportabile, fu forse l’inizio della sua conversione. In ogni caso, il risultato fu per lei un desiderio di imitazione dei missionari cristiani, nel senso che da allora prese a occuparsi dei malati, dei bambini, dei bisognosi con un trasporto che finì col procurarle la stima degli altri indigeni. Tanto da allarmare i suoi fratelli. Infatti, questi temevano che, quando fossero morti i loro genitori, il popolo avrebbe riversato il suo favore su Chikaba, eleggendo lei come regina e defraudando le aspettative dei maschi della famiglia sul trono. Chikaba dovette fare i salti mortali per rassicurarli: non aveva alcuna mira politica, anche se non sapeva bene nemmeno lei che cosa volesse nella vita. In ogni caso, ci pensarono gli eventi a decidere per lei.
    RAPITA DAGLI SPAGNOLI
    Un brutto giorno un raid di razziatori spagnoli rapì lei e altri nativi per venderli come schiavi. Non avrebbe rivisto mai più la sua terra e la sua famiglia. Caricata con gli altri schiavi su una nave, fu portata in Spagna. Durante il tragitto i trafficanti appresero che si trattava di una principessa e cominciarono a trattarla bene. Oh, non per riguardo al rango, ma perché da lei si poteva cavare un miglior prezzo. Infatti, venne acquistata dai duchi di Mancera, che la portarono nel loro palazzo di Madrid. La differenza tra gli schiavi domestici nei luoghi cattolici e in quelli protestanti stava in questo: i primi erano considerati dei paggi e praticamente adottati, entravano cioè a far parte della famiglia, come si può vedere in molti dipinti dell’epoca. Gli spagnoli non tenevano dunque...

    • 8 min
    Il buon ladrone a cui Gesù promette il paradiso subito

    Il buon ladrone a cui Gesù promette il paradiso subito

    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7736

    IL BUON LADRONE A CUI GESU' PROMETTE IL PARADISO SUBITO di Roberto De Mattei
    La liturgia latina della Chiesa ricorda il 25 marzo san Disma, il buon Ladrone, a cui Gesù disse sul Calvario: "Oggi sarai con me in Paradiso". La scelta del 25 marzo non è casuale. Questa data non è solo quella dell'Annunciazione e dell'Incarnazione del Verbo ma secondo un'antica tradizione è anche il giorno in cui il Salvatore dell'Umanità consumò il suo supremo sacrificio. Il Vangelo ci dice che sul Calvario crocifissero Gesù con due Ladroni, mettendone uno alla sua destra e uno alla sua sinistra (Lc, 23, 39-42). Ne conosciamo il nome dai Vangeli apocrifi: Disma il buon Ladrone e Gisma, o Gesta il cattivo Ladrone.
    La parola Ladrone non deve trarre in inganno. Il termine Latrones indicava i briganti da strada, non solo ladri, ma assassini e rapinatori, puniti di morte presso tutti i popoli dell'antichità. Per umiliare Gesù furono scelti i più scellerati tra i tanti che riempivano le prigioni di Pilato. Disma era un capo brigante, probabilmente egiziano, vissuto e invecchiato tra i delitti più gravi, tra i quali quello di fratricidio. Sulla sua croce era scritto: Hic est Dismas latronum Dux
    La morte in croce era tra le più dolorose e il condannato soffriva terribilmente, sospeso a quattro chiodi. I due malfattori imprecavano tra gli spasimi, mentre Gesù sopportava i tormenti con pazienza inalterabile. Le sue prime parole sulla Croce furono di misericordia per i suoi carnefici: "Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno" (Lc, 23, 24).
    Entrambi i Ladroni ascoltarono queste parole, entrambi ricevettero la grazia sufficiente a riconoscere l'innocenza di Cristo, ma uno si convertì, l'altro continuò a bestemmiare. San Luca racconta che dei due ladri, appesi alla Croce accanto a Cristo, uno si beffava di lui dicendogli: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!". Ma l'altro lo rimproverava: "Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente siamo condannati alla Croce, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male". E aggiunse: "Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". Gesù gli rispose: "In verità io ti dico che oggi sarai con me in Paradiso" (Lc, 39-43).
     Disma dunque insorge alle parole di oltraggio contro Gesù del suo compagno di rapine e lo corregge apertamente, in maniera severa, accusandolo di non capire che Gesù è innocente, mentre loro sono colpevoli e giustamente condannati. Il suo è un atto di pentimento, ma egli non si limita a riconoscere le proprie colpe, proclama l'innocenza di Cristo, dicendo: "Non ha fatto niente di male". Lo proclama, quando tutto il mondo condanna Gesù e gli Apostoli tacciono. Disma rompe il silenzio, afferma pubblicamente la verità.
    LA GRAZIA DELLA FEDE
    Per affermare l'innocenza di Gesù era sufficiente la luce della ragione, illuminata dalla grazia, per proclamarlo Dio era necessaria la grazia sfolgorante della fede. Dopo aver difeso Gesù contro il cattivo ladrone, Disma riceve la grazia della fede soprannaturale che esprime nelle parole: "Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno"(Lc, 23, 42). Non era tra coloro che avevano seguito Gesù nella sua predicazione, nessun angelo glielo aveva suggerito. Non vedeva la Divinità di Cristo, ma un'umanità sfigurata dalle sofferenze. Eppure, pur vedendolo crocifisso, non dubitò che fosse Dio. San Roberto Bellarmino dice, "Chiama Signore uno che guarda nudo, ferito, sofferente, deriso e schernito pubblicamente, appeso con lui e afferma che dopo la morte andrà nel suo regno. Da ciò si comprende che egli non sognava un regno temporale di Cristo sulla terra, come aspettavano i Giudei, ma un regno eterno dopo la morte nel Cielo. Chi gli aveva...

    • 11 min
    La terribile storia dimenticata dei francescani martirizzati dai musulmani

    La terribile storia dimenticata dei francescani martirizzati dai musulmani

    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7723

    LA TERRIBILE STORIA DIMENTICATA DEI FRANCESCANI MARTIRIZZATI DAI MUSULMANI di Rino Cammilleri
    Oggi voglio ricordare i sette francescani, e non solo loro, che nel 1920 vennero martirizzati dai musulmani. Nel 1920,dunque dopo la fine della Grande Guerra, dopo i trattati di pace, dopo che Kemal Ataturk aveva respinto i Greci e salvato la Turchia. Che, lo ricordiamo, era stata alleata degli sconfitti Imperi centrali.
    Il genocidio del popolo armeno - il primo, nella storia, a convertirsi al cristianesimo - era stato completato da un pezzo, i turchi, stretti tra i Bolscevichi di Lenin a nord e le potenze occidentali, soprattutto Inghilterra e Francia, che si spartirono il loro ex impero, dopo aver orribilmente incendiato Salonicco (la più ricca delle loro città, ma ricca grazie a greci e armeni), visto che Ataturk intendeva modernizzare il suo popolo vietando fez, veli e barbe per dare un sterzata laica alla vita turca (ben rendendosi conto che la causa dell'arretratezza stava proprio nella religione), avrebbero potuto smetterla con le scimitarre e l'uccisione inutile e insensata dei cristiani. Invece no. Ecco la storia che andiamo a raccontare.
    Alla fine del 1919 tre francescani, due  italiani e un ungherese, vennero assegnati dalla Custodia della Terra Santa a Mugiukderest, in Armenia. Erano padre Francesco De Vittorio (38 anni), fratel Alfredo Dolentz (67), austriaco, e fratel Salvatore Sabatini (45). La missione era completamente distrutta e ora, a guerra finita, la Custodia intendeva ripristinarla in qualche modo. Provvisti di denaro, i tre riuscirono a farvi affluire le famiglie superstiti e a radunare la trentina di bambini rimasti orfani. Sotto la loro direzione si cominciò a riattare qualche casa e, soprattutto, a impiantare un orfanotrofio per quei bambini abbandonati che chissà come erano riusciti a scappare al genocidio. I tre frati erano tutto: medici, farmacisti, vivandieri, maestri, padri. Ma nel gennaio del 1920 ricominciò l'incubo: la notizia che i massacri di cristiani erano ripresi giunse fino alla missione e quei poveri disgraziati, la cui sfortuna non sembrava aver mai fine, presero a disperarsi. Dove altro sarebbero potuti andare? Ora che avevano riguadagnato un minimo di tranquillità, pur nella miseria, bisognava di nuovo scappare?
    UN INVITO A CENA
    Leggo in una vecchia news del Centro studi Giuseppe Federici che ai tre frati, in pensiero per i loro orfanelli, si presentò uno del posto, un musulmano di cui avevano fatto la  conoscenza e che si era comportato sempre amabilmente con loro. Ne conosciamo il nome: Leuimen Oglu Alì. Aveva una grande casa e si  offrì di ospitare i missionari e tutti gli orfanelli. Anzi, poiché c'era ancora posto, poteva accogliere anche tutti i pochi cristiani del luogo. E arrivò a mettere a disposizione alcuni locali per gli oggetti, le cose care che ognuno avesse ritenuto di portare con sé. Cominciò così il trasloco. In quella nuova casa sarebbero stati al sicuro, così aveva garantito loro l'anfitrione. Anche se si fosse scatenato il pogrom, lui li avrebbe protetti, perché nessuno avrebbe osato violare la casa di un notabile musulmano. Erano a cena, gentilmente offerta dal loro ospite, quando i tre frati sentirono colpi di fucile provenienti dalla strada. D'istinto si alzarono da tavola per sbirciare dalle finestre, ma a quel punto Leuimen Oglu Alì gettò la maschera. Estratta una pistola, mentre i tre gli davano le spalle li freddò con pochi colpi, poi andò ad aprire il portone di quelli fuori, con cui era d'accordo. Dei cristiani e orfanelli non ne rimase vivo neppure uno. Poi la banda di assassini andò a saccheggiare la chiesa, l'orfanotrofio e le case delle vittime, completando l'opera con un bel falò di tutto. Tutto questo accadde il 23 gennaio 1920.
    CHIESA...

    • 7 min

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