Parole in viaggio - puntata #15
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Bentornati sulle Frequenze di Parole in viaggio, la trasmissione dedicata all’approfondimento dei significati di alcune parole che ogni giorno pronunciamo. C’è un verbo che più di tutti sta dominando la scena delle vicende internazionali: la Corea del Nord sembra essere pronta a lanciare missili intercontinentali, mentre di risposta il presidente americano Trump sembra essere pronto a reagire annientando la stessa Corea. La situazione sembra giorno dopo giorno precipitare in un cunicolo senza possibilità di ritorno. Il verbo precipitare entra nell’uso sempre più quotidiano per descrivere situazioni che all’apparenza sembrano irreversibili. Precipitare nel senso di cadere in quella voragine da cui è impossibile risalire. Precipitare però pone le sue radici nel latino praecipitem, colui che cade con la testa in avanti: l’elemento caratteristico di questa parola è proprio la testa, una testa che viene descritta come ciò che si sposta dalla sua normale posizione e di conseguenza modifica anche il consueto movimento del corpo. La testa rappresenta ciò che controlla il nostro corpo, il nostro essere: nel momento in cui perde l’equilibrio e si sposta fuori dall’asse del corpo determina un incontrollabile mutamento della parte rimanente. Un corpo senza testa non ha ragione di esistere, oltre il controllo di sè perde soprattutto la possibilità di rendersi utile agli altri e a sè. Una nazione che è parte attiva nel far precipitare le cose, perde il controllo della situazione, ma soprattutto perde la possibilità di garantire al suo popolo la sicurezza. Non c’è sofferenza più grande di patire per una scelta imposta da altri: quando è qualcuno esterno da me a scegliere cosa e come devo vivere, è esattamente il momento in cui le cose iniziano a precipitare, iniziano a spostare la testa, la mia testa lontana dal corpo. la sofferenza è veramente grande perchè non devo soffrire, sub fero, per ciò che io ho deciso di portare sulle mie spalle. Devo invece caricarmi di un peso che non è mio, anzi, che probabilmente non avrei mai portato. La sofferenza mi costringe ad allenare la pazienza, quella virtù che chiede all’uomo di affrontare il pathos delle cose. Non si tratta di essere indifferenti al dolore, di lasciarlo scorrere sulla pelle: la pazienza è una dote che va ben oltre. Ci chiede di guardare il faccia il dolore, guardare negli occhi coloro che ci caricano di pesi indesiderati, guardarci allo specchio mentre la sofferenza tenta di schiacciarci: anche perchè se non affrontiamo direttamente la situazione rischiamo di precipitare, di mettere cioè la testa in avanti, di perdere l’equilibrio e rimanere definitivamente torchiati dalla massa sovrastante. La pazienza può divenire una strada risolutiva, la pazienza è l’arte di accogliere il dolore, come fa il salice quando nevica, non usa tutta la sua forza per sopportarlo e rischiare quindi di spezzarsi dal peso. Il salice accoglie la neve sui suoi rami, si flettono, si piegano fino a far cadere la stessa neve a terra: non usa la forza per contrastare il dolore, ma lo sa accogliere, lo porta con sè e lo accompagna verso la sua strada. Forse è questo uno dei doni più significativi che la natura ci mostra: saper accogliere, saper essere flessibili dinnanzi a ciò che è doloroso, senza accorrere, senza precipitare, senza lasciarsi travolgere dall’impeto della sua forza. E forse non a caso l’uomo li chiama salici piangenti, non solo perché la forma richiama le lacrime che cadono. Piangenti anche perchè quando accogli il dolore non puoi rimanere indifferente, il dolore entra e fa parte di te: piangere è un’azione naturale dell’essere umano, e piangere richiama il plangere latino che significa percuotere, battere, colpire. Per ogni lacrima che lasciamo cadere corrisponde un colpo subito. L’indifferenza è scappare di fronte al dolore
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Published 09/06/20
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